Da un lato un clamoroso successo editoriale. Dall’altro – comunque la si pensi, dovunque si sia collocati, qualunque sia la propria sensibilità – uno dei tanti nodi irrisolti del nostro Paese, quello della giustizia. Con il secondo elemento tra i fattori che concorrono a spiegare il primo.

Da una parte Luca Palamara, giovane e brillante magistrato, laurea con lode alla Sapienza, dopo 7 anni in magistratura. A soli 39 anni presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il “sindacato” dei togati, il più giovane nella storia dell’associazione, carica alla quale assomma quella di componente del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno della magistratura. Nel libro, scordandosi di essere stato “carnefice” di tanti suoi colleghi e del sistema giudiziario, vuole apparire vittima di quel “sistema” del quale era “il signore delle tessere”, per anni un ganglio vitale, colui che ne tesseva e ne tirava i fili.

Dall’altra Alessandro Sallusti, direttore de “Il Giornale”, giornalista di lungo corso, palesemente e orgogliosamente della fazione che vede i magistrati come “toghe rosse”, da combattere, al quale non sembra vero poter accedere a tanto.

L’inchiesta su Palamara e il libro intervista di Sallusti* allo stesso magistrato, squarciano il velo su una situazione che tanti preconizzavano e sembrano dare ragione a quanti denunciavano il “marcio” presente nel corpo giudiziario. Certo, indubbiamente, emergono comportamenti non conformi all’etica e anche illeciti perpetrati da una parte della magistratura. Il sistema, però, è più complesso di questa impressione.

Non si deve dimenticare che siamo in un Paese nel quale, secondo una corrente di pensiero, qualcuno è “sceso” in politica per cambiare alcune leggi, depenalizzare certi reati e garantirsi una certa impunità; il Paese dei vari “lodi” e delle leggi ad personam.

Il quadro d’insieme è più esteso e preoccupante. La vicenda Palamara ci dice che quel sistema comprendeva una parte della magistratura ma anche uomini delle istituzioni, politici, imprenditori, giornalisti. Risiko delle nomine, rapporti indebiti, richieste di favori professionali e personali, dalla promozione di figli agli esami universitari o nei vari concorsi, fino alla miseria dei biglietti per lo stadio. In una fulgida rappresentazione di quello che, per larghi tratti, è questo Paese.

In sintesi, le problematiche che affliggono il nostro sistema giudiziario non riguardano solo la giustizia. Certo, attengono anche alla giustizia, al rispetto delle regole, al giusto processo, alla non discrezionalità e all’obiettività dei magistrati ma riguardano altresì la vita economica, sociale, lavorativa del Paese. Il Paese in quanto tale, a tutto tondo.

Da anni, come Acli, includiamo i tempi della giustizia civile – ma vanno ricomprese anche le problematiche sul fronte penale – tra i fattori sui quali agire per creare posti di lavoro in Italia. Una “macchina” della giustizia che funzioni a dovere, nel quale i tempi siano certi e ragionevoli e la certezza del diritto garantita, è un fattore di competitività. Nei Paesi europei una procedura fallimentare dura dai 2 ai 3 anni, nel nostro 7 ma può arrivare a 10. È difficile che un’azienda investa in un Paese nel quale, in caso di necessità, può risultare complicato, lungo e dispendioso far valere un proprio diritto. Nell’amministrare la giustizia, nella patria del diritto, se ne deve tener conto. 

 

*A cura di Alessandro Sallusti, Il sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana, Rizzoli 2021.