L’occasione per portare gli studenti a una mostra d’arte e fare lezione tra gli spazi di un museo ha coinciso con un intervallo di riapertura delle scuole in mezzo alla pandemia, nell’ottobre scorso. Si tratta di opportunità ghiotte, normalmente non facilmente incastrabili con il calendario didattico, ma quando accade, converto volentieri i protocolli consueti dell’aula con salubri e rigeneranti “spiazzamenti” che gli/le studenti accolgono solitamente con entusiasmo.
Lo scorso anno visitammo negli spazi in Santa Giulia, la mostra di Zhera Dogan, artista e dissidente curda Curda che compose le sue opere durante la prigionia in un carcere Turco in condizioni miserabili, impiegando materiali di recupero tra i più reietti, trasformando la disperazione in ispirazione. Confrontarsi con quella potente espressione di umanità che ha saputo ricavare dal dolore e dalla violenza una tensione creativa, ci diede la possibilità di attribuire forma anche alla nostra interiorità, di interrogarla e dialogarci per farne opportunità.
Quest’anno la associazione AAB (Ass. Artisti Bresciani), in occasione dei suoi 75 anni di attività ha allestito presso la sede dell’Università Statale in piazzetta Boni, un’esposizione di opere ispirate alla pandemia, realizzate da artisti bresciani in condizione di domestica reclusione. Il titolo ne anticipava il senso: “Rigenerazioni“.
L’abbiamo visitata portandoci appresso alcune domande che ci avrebbero fatto da guida: in che senso l’arte può essere rigenerativa? Quali processi rigenera in particolare in situazioni di criticità, difficoltà, dolore, privazione? Quale intreccio esiste tra arte, resilienza, educazione? Cos’è un’esperienza estetica? La molteplicità delle opere esposte, rivelatrici dell’impatto del Covid sull’esistenza degli artisti, testimoniavano la cifra stilistica del percorso. Materiali, forme, linguaggi come itinerari emozionali e di senso che divenivano consistenza vitale al nostro sguardo provocando spiazzamenti, curiosità, perplessità.
Incontrare un’opera d’arte equivale a incontrare la personale ricerca di un uomo e una donna, le sue scelte espressive, le mediazione urgente e spesso conflittuale tra mondi interiori e mondo delle relazioni. È questa una dimensione che sentiamo ci accomuna a quella ricerca. Se, come sosteneva J. Beuys, ogni uomo è un artista, ci autorizziamo a portare con noi carta e penna per dare voce a nostra volta a quelle stesse dimensioni da cui ci sentiamo albergare.
Ne escono appunti estemporanei, brevi intuizioni, folgoranti domande, ispirate divagazioni. Divagare è verbo nomade, conduce a sperimentare inedite connessioni. Forse sta qui il senso liberatorio e sovversivo dell’esperienza artistica?
Lo spazio fuori sembra fatto per accudire pensieri: una scalinata che dà sulla piazzetta antistante, naturalmente raccolta tra le mura, radi gli scalpiccii. E così la mostra prosegue anche all’aperto, nelle scritture di ognuno che allestiscono spazi di riflessività impastata da quello che abbiamo visto e percepito. Ragioniamo della funzione dell’arte in quanto esperienza che rivitalizza emozioni in situazioni di criticità, difficoltà, dolore, privazione; dell’importanza di non silenziare il proprio mondo interiore. Constatiamo che se l’opera d’arte sta negli occhi di chi la guarda, allora è cruciale occuparsi di come guardiamo (sentiamo, odoriamo, tocchiamo, gustiamo) il mondo, e che quando si riesce a trovare un punto di incontro quello diventa un territorio da abitare. Come se l’esperienza umana si manifestasse prevalentemente nei confini delle relazioni.
Pensarsi artisti non è velleità, ma analogia che si ribella al rischio di un tempo anestetico. Così, prima di andare, stendiamo una lunga striscia di carta che si appoggia nello spazio tra noi. Un fiume, una strada, una scia nel cielo? Vi depositiamo pensieri rigeneranti tratti dai nostri testi, ne facciamo manifesto, accucciandoci come per allevarli uno ad uno. Quali tracce lasceremo al mondo, quali tracce ci lascerà il mondo?
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