La morte di un adolescente e le cariche della polizia. In mezzo a due drammi c’è un dibattito in cui l’ideologia la fa ancora da padrone. Lorenzo, un ragazzo-studente che muore in un’azienda è un dramma per la famiglia, per la scuola, per l’impresa e per la comunità intera. Lo è per tutti, visto che il patto di convivenza civile si fonda sulla vita e su una “buona vita”. Il nostro patto costituzionale dichiara inoltre di voler rimuovere le cause che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Significa che dobbiamo offrire ai nostri ragazzi gli strumenti, le conoscenze e le esperienze per poter diventare “persone che lavorano” con consapevolezza, per essere autonomi e partecipare alla vita della repubblica. Per farlo ci sono la scuola, la formazione professionale, l’università. Per farlo bene dobbiamo coinvolgerli anche nella vita del territorio, attraverso gli spazi e i tempi delle diverse realtà: non possiamo solo tenerli al riparo di un’aula. È una partecipazione da allestire con intelligenza, con attenzione, intervenendo sui pericoli, tutelando una vita in formazione: con dignità. Ma non è possibile assicurare l’assenza di ogni rischio.
Qualunque forma di educazione porta con sé rischi e pericoli: nelle famiglie, nelle relazioni all’interno della stessa classe – come drammaticamente si è visto anche in questi giorni – nelle gite scolastiche, nelle iniziative parrocchiali, nelle route degli Scout, come ricorda con intelligenza Paolo Zuffinetti, e in tutto ciò che sperimentiamo fuori dalla virtualità di un computer.
Davvero vogliamo mettere in discussione il fragile legame che (finalmente) in questi anni ha consentito di riaprire il dialogo tra scuola e lavoro? È un legame decisivo per la crescita della persona, per associare la concretezza all’astrazione, la teoria alla realtà delle cose. I concetti di comunità e di immunità ci aiutano a capire che non possiamo preservare i nostri giovani da ogni pericolo e da ogni insidia, pena ridurre la loro partecipazione alla comunità e il confino alla sola realtà virtuale. Se riteniamo che il ruolo educativo della scuola non si limiti al conferimento di contenuti teorici ma si debba giocare sulle esperienze che consolidano le conoscenze, allora dobbiamo prevedere che la virtualità si traduca in realtà, con tutto ciò che essa comporta. Non dobbiamo immunizzarli neppure ideologicamente, riproponendo una altrettanto pericolosa opposizione tra formazione della persona e del cittadino e formazione del lavoratore, come se la prima riguardasse i cittadini di serie A e la seconda quelli di serie B.
Il lavoro è parte dell’esperienza della persona, non è una realtà parallela, con un mercato fatto così e delle imprese fatte così. Gli stage, i tirocini, l’alternanza scuola-lavoro (oggi si chiama PTCO, percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) e tutto quanto rende ibrida la formazione sono un’occasione per rinnovare la cultura del lavoro. Vanno fatti bene – perché non è sempre così! – in modo controllato e aperto.
Dobbiamo evitare di cedere, però, alla logica scorretta che trasforma un dramma umano in una sorta di dilemma sul rapporto scuola-lavoro, gettando il bambino con l’acqua sporca e facendo un pessimo servizio alle nuove generazioni. Non bisogna creare falsi nemici, non c’è da dire alcun sì o no: c’è solo da ragionare su come rafforzare il legame tra formazione e lavoro in modo utile e controllato.
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