In un paese in cui il 60% degli abitanti non legge mai un libro è lecito dubitare che le 269 pagine del Piano Nazionale di Ripartenza e Resilienza (PNRR) abbiano avuto molti lettori. Del resto, non possiamo neppure dar torto a chi si è sottratto a questo impegno, perché non si tratta certo di un testo pensato per l’intrattenimento. I media ne hanno parlato molto, generando una certa conoscenza diffusa e confusa sull’argomento. È dunque utile cercare di riepilogare di che cosa si tratta e come ci coinvolge.
Il PNRR è un lungo elenco di programmi e progetti pensati per disegnare l’Italia del futuro. Nell’introduzione si parla del Covid e degli effetti che ha avuto sull’economia, ma dopo pochi paragrafi si passa a trattare di altro: delle fragilità economiche, sociali e ambientali nazionali, del declino ventennale e delle trasformazioni che sarebbero necessarie. Di questo parla il PNRR: di come cambiare il nostro paese.
Non si tratta quindi di cercare di riavere l’Italia com’era prima della pandemia, ma di metterla in condizione di superare le sue storiche debolezze e di farla ripartire in modo efficace e sostenibile. In un certo senso è un libro dei sogni, ma anche una nota della spesa e una chiave per ottenere risorse: aver predisposto il piano e avere ottenuto l’approvazione dell’Europa consente infatti di ricevere i finanziamenti necessari per renderlo operativo.
Il PNRR copre 5 anni, fino al 2026; ha due componenti principali, le riforme e le missioni, e alcune priorità trasversali, come il meridione e la disoccupazione (giovanile e femminile). Le principali riforme sono ambiziose e storiche: pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione, concorrenza. Le “missioni” (traduzione frettolosa dell’inglese mission) sono sei: 1) Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; 2) Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3) Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4) Istruzione e ricerca; 5) Inclusione e coesione; 6) Salute. Ogni “missione” ha più componenti, ciascuna a sua volta composta da riforme e investimenti. È un mosaico: l’insieme delle centinaia di progetti da realizzare comporrà l’Italia di domani, ecologica, digitale, efficiente, solidale, ricca, forse più felice.
Un piano ambizioso ma possibile, che porta a una domanda triste: ma ci voleva una pandemia? L’altra domanda è più concreta: ce la faremo o l’Italietta dei burocrati e delle perpetue divisioni finirà come al solito per prevalere? E ancora: come faremo a capire se il Piano avrà funzionato? Un elemento oggettivo e determinante sarà il risultato economico, la crescita. Se l’Italia tornerà a crescere a ritmi paragonabili a quelli dei migliori stati europei il PNRR avrà raggiunto uno dei suoi obiettivi più importanti, anche se non l’unico.
Come sappiamo il piano è finanziato con circa 220 miliardi: considerando che molte pagine del testo sono bianche o contengono soltanto dei titoli, quelle che restano “valgono” mediamente circa un miliardo a pagina. Sarebbe un buon motivo per cercare di saperne di più, per vincere la pigrizia e sfogliarlo. Anche perché riassumerlo è difficile, dato che in un certo senso è già un riassunto: gli investimenti riguardano infatti decine di aspetti diversi, dall’agricoltura sostenibile all’idrogeno, dalle rinnovabili agli edifici scolastici, dal dissesto idrogeologico alle stazioni ferroviarie del sud, dalla telemedicina agli ospedali di prossimità, e molto altro; ciascuno meriterebbe una analisi approfondita, mentre le descrizioni riportate nel Piano sono spesso sintetiche e per di più a volte scritte con il confuso linguaggio dei consulenti dirigenziali, fatto di sigle, neologismi e termini inglesi.
Entrare nel merito porta anche a qualche perplessità e qualche domanda. È lecito chiedersi, per esempio, perché vengono stanziati ben 25 miliardi per le ferrovie e solo 18 per la salute, perché ci sono solo 11 chilometri per nuove metropolitane; dove verranno realizzati i nuovi impianti di gestione rifiuti per i quali si stanzia 1 miliardo e mezzo visto che nessuno li vuole; se davvero nell’inverno demografico ci servono 228.000 nuovi posti negli asili nido e nelle scuole per l’infanzia, o cosa saranno le 1288 Case della Comunità, nuove strutture sanitarie locali a metà fra distretto e poliambulatorio (in provincia di Brescia potrebbero essercene ameno una ventina entro il 2026).
Sono solo alcuni esempi fra i molti: il piano è interessante e denso, ma inevitabilmente privo di sufficienti dettagli. Inoltre si basa sul “fare” e non precisa che tipo di prospettiva sociale disegna: a parte qualche bizzarro richiamo a una “gigabit society” non meglio definita, possiamo immaginare che attraverso il processo di
modernizzazione ed efficientamento dell’apparato statale, l’attenzione a categorie e territori storicamente deboli, e l’individuazione di progetti collettivi di grande respiro come la digitalizzazione e la transizione ecologica, si punti a costruire una società meno disuguale e più coesa. Se così fosse, sarebbe già un ottimo risultato.
Nel frattempo, nessuno si permette davvero di mettere in discussione il PNRR, perché su questo aspetto Draghi e Von Der Leyen hanno realizzato uno schema perfetto: il documento è la chiave per accedere alle risorse economiche, che vengono erogate ratealmente in base al suo stato di attuazione. Il piano può essere migliorato, ma affermare che non funziona o che gli obiettivi non sono stati raggiunti significa bloccare i finanziamenti, e poiché nessuno può correre questo rischio, alla classe politica non resta che darsi da fare perché venga realizzato. Questo è il primo traguardo raggiunto: tutti hanno capito che bisogna remare insieme nella stessa direzione e che bisogna arrivare a risultati concreti e misurabili. Per un paese come il nostro, unito solo nel festeggiare le rare vittorie della nazionale di calcio, è già un grande cambiamento.
Che cosa trova nel PNRR il mondo delle associazioni e del volontariato? Sul piano delle scelte la bella soddisfazione di scoprire che temi come l’inclusione, la coesione sociale, la disabilità, la non autosufficienza, la formazione per il lavoro, la tutela dell’ambiente e persino lo sport sono diventati vere priorità nazionali. Su un piano più operativo, vale l’affermazione riportata a pagina 200: “L’azione pubblica potrà avvalersi del contributo del Terzo Settore”. Dunque, collaborare con i soggetti pubblici, e dove è possibile sfruttare le risorse del Piano per attuare attività e progetti negli ambiti tipici dell’universo del Terzo Settore. C’è molto lavoro da fare, un lavoro che promette di essere appassionante perché sorretto da una visione e da una prospettiva che ci riguarda tutti: va da sé che le Acli sono pronte a fare la propria parte.
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