Una guerra condotta con le armi dell’energia potrebbe rivelarsi, sia pure nell’immane tragedia, occasione perché l’Europa diventi adulta.

È già, praticamente, storia. Ma serve a comprendere come si muovono e, se possibile, si governano, le grandi questione legate all’approvvigionamento energetico e alla politica estera. Nel novembre del 1987, per placare i potenziali venti di guerra che soffiavano tra Algeria e Tunisia, l’allora Governo Craxi, in accordo con il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il presidente e amministratore delegato dell’Eni Franco Reviglio e l’ammiraglio Fulvio Martini, direttore del Sismi, misero in atto “un’operazione di politica estera”, come la definì quest’ultimo, tesa a evitare che la crescente destabilizzazione della Tunisia spingesse l’Algeria a effettuare un intervento armato nei suoi confronti. Roma guardava con preoccupazione la crisi incipiente, non per solo amor di pace, ma perché un conflitto sulla sponda meridionale del Mediterraneo o il rischio di una guerra civile in Tunisia, scossa da proteste di piazza che l’anziano padre della Patria Habib Bourguiba voleva schiacciare con la forza, avrebbero compromesso parte del sistema di approvvigionamento energetico dell’Italia, di cui il gasdotto algerino-tunisino rappresentava un pilastro fondamentale. L’Italia, una volta identificato chi meglio potesse garantire non solo la stabilità a Tunisi, ma anche gli interessi italiani, appoggiò senza indugi il colpo di mano di Ben Ali e ne favorì l’ascesa al potere. In una sola operazione Roma aveva scongiurato una guerra, stretto forti legami con l’Algeria, che da quel momento iniziò a fornire aiuto al nostro Paese in materia di controllo del terrorismo e, allo stesso tempo, mantenuto intatta la propria fornitura di gas. Sebbene il colpo di Stato tunisino voluto dall’Italia sia ormai lontano nel tempo, la Realpolitik legata all’equazione fabbisogno energetico-stabilità non è assolutamente mutata. Anzi, è diventata sempre più prioritaria nelle agende, non solo più nazionali, come lo era in fondo ai tempi della Guerra Fredda, ma interregionali, tra grandi e ben definiti conglomerati geopolitici. E la geopolitica dell’energia, degli oleodotti e gasdotti, sono divenuti i nuovi vettori delle relazioni internazionali, condizionando nel profondo le politiche di interi sistemi geografici e, da meri strumenti di trasporto energetico, oleodotti e gasdotti devono oggi essere considerati strumenti di pressione diplomatica. 

Già da diversi anni, solitamente nel mese di gennaio, si ripeteva una crisi politica, una sorta di drôle de guerre tra Mosca e Kiev, che ruotava attorno alle questioni energetiche. La Russia era alle prese con un’Ucraina sempre in forte debito e non in grado di pagare le forniture a Mosca, la quale, per ritorsione, minacciava il suo vicino di sospendere l’erogazione del gas. Kiev, di contro, avvertiva la Russia che in caso di mancato approvvigionamento avrebbe “prelevato” il gas destinato all’Unione Europea dalle condutture che transitano sul suo territorio, per salvaguardare il proprio interesse nazionale, e soprattutto, per dare ai suoi concittadini di che riscaldarsi. La crisi rientrava poi verso il mese di febbraio, quando solitamente si raggiungeva un accordo sulla dilazione del credito ucraino nei confronti di Mosca. A farne dunque le spese era, allora come oggi, l’Unione europea, che ancora vede transitare dall’Ucraina il 16% del proprio fabbisogno di gas. 

Al di là di quello che poteva sembrare una sorta di gioco delle parti, il ripetersi di queste dinamiche non ha ancora prodotto una sufficiente presa di coscienza della vulnerabilità intrinseca dell’Ue che, come su altri scenari, non riesce mai ad agire all’unisono, né attraverso una presa di posizione congiunta di politica internazionale, né per mezzo dell’elaborazione di un pieno, coerente e condiviso piano strategico, realmente “europeo” sulle energie rinnovabili. Molto oggi si sta facendo, grazie anche ai piani straordinari stanziati a seguito della situazione pandemica, così come verso la progressiva riduzione della dipendenza dalla Russia, da cui la Ue importa ancora il 45% del proprio fabbisogno di gas, seguita dalla Norvegia (35%), Algeria (11,2%), Qatar (5,4%) e Nigeria (3%). Ma la vulnerabilità energetica dell’Europa, unita alla sua disomogeneità nelle azioni di politica estera, la lascia fragile dinanzi alle crisi internazionali, che si ripetono ciclicamente. Così è stato per lo shock petrolifero del 1973, causato dalla guerra del Kippur e con il conseguente embargo petrolifero dei membri dell’Opec verso i Paesi che appoggiavano Israele, o ancora con la rivoluzione iraniana del 1979 e con la guerra Iran-Iraq (1980): due eventi che fecero salire esponenzialmente il prezzo del greggio. Più contenuti i rincari e il conseguente impatto sugli approvvigionamenti energetici e quindi sulle economie europee si ebbero dopo l’invasione del Kuwait (1990) e la guerra del Golfo (1991), ma solo perché, dietro richiesta statunitense, l’Arabia Saudita si rese disponibile a supplire alla mancata produzione petrolifera irakena con il proprio greggio. Un “sacrificio” che le frutterà negli anni a venire decine di miliardi di dollari in più. E poi la crisi libica (2011) fino ai più recenti fatti afghani (2021). 

La crisi ucraina coinvolge in maniera più diretta e, quindi, incisiva l’Europa, sotto diversi aspetti. Quello energetico è senza dubbio quello che tocca più da vicino la popolazione, per il rincaro delle spese per famiglia e che quindi si presta anche a maggiori speculazioni di carattere politico-populista. La supposta ritrovata unità d’intenti e d’azione europea nell’accettare, quale forma sanzionatoria verso Mosca, la proposta tedesca di bloccare il gasdotto Nord Stream 2 può rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio. Se da un lato priverebbe Gazprom e, quindi, Mosca, di entrate fondamentali per la propria economia, dall’altro l’Europa non riuscirebbe a supplire alla carenza di gas con altri fornitori.

Sarà dunque necessario agire su due fronti: uno a breve termine e uno di lungo periodo. Nell’immediato, la risposta deve essere finalizzata ad arginare l’aumento dei prezzi delle materie prime, che ha un impatto diretto non solo sull’industria e quindi sull’occupazione, ma anche sulle famiglie, con gli aumenti di benzina e gas tra i primi. Oltre a misure di carattere fiscale, per altro già varate dal governo, diviene imprescindibile diminuire le accise sui carburanti, aumentare le importazioni da altri paesi, e nel contempo chiedere all’Opec di aumentare la produzione, al fine di provocare una riduzione dei prezzi. Alcuni tra i principali Paesi produttori arabi sembra vogliano lasciare cadere nel vuoto le richieste provenienti dall’Occidente, intenzionati forse a sfruttare ciò che considerano essere un momento propizio per incrementare i loro introiti. 

L’Arabia Saudita, con non comune supponenza ha rifiutato la telefonata del presidente Biden, nonostante il regno sia legato a Washington sin dal 1945 dal cosiddetto “Patto del Quincy”, che sancisce una relazione basata sull’arms for oil: protezione e vendita di armi in cambio di petrolio. Un patto, che nel corso dei decenni seppe resistere alla crisi seguita alla guerra dello Yom Kippur (1973) e agli attentati dell’11 settembre 2001, nei quali 15 dei 19 dirottatori erano sauditi. La decisione saudita di non acconsentire a una maggiore produzione – così come fece durante gli anni in cui all’Iraq era impedito di esportare greggio – sembra confermare che Riyad sia un alleato “a intermittenza”. Sul lungo periodo è necessario sfruttare appieno le risorse e i piani previsti dal Pnrr e proseguire sulla via tracciata dal ministro Cingolani, che prevede l’indipendenza dal gas russo in 24-36 mesi, attraverso una diversificazione dei fornitori e al rafforzamento delle nostre infrastrutture gasiere.

Al di là del comparto energetico, la crisi mette a nudo anche la debolezza intrinseca di una Nato, già colpita nel profondo dal fallimento della missione in Afghanistan, e da tempo in cerca di una sua nuova identità, che potrebbe proprio trovarsi in una sua dimensione più europea, quale ossatura per la realizzazione di una effettiva forza armata dell’Unione, in grado di rispondere coerentemente, concretamente ed efficacemente alle sfide della sicurezza del mondo di oggi. Non necessariamente quale attore attivo in un conflitto, la cui tipologia oggi è sempre meno convenzionale, ma come attore di interposizione tra le parti e anche come co-protagonista in operazioni di State-building. La crisi ucraina è un’altra occasione che l’Europa ha per diventare finalmente adulta, dopo le molte già sprecate in passato – dai terribili episodi che videro protagonista la ex Jugoslavia e che ora si stanno pericolosamente riaffacciando sullo scacchiere orientale, a quella già citata della Libia, così come quella siriana. Un’occasione per compiere quel necessario passo verso un’effettiva unità politica, componente essenziale, affinché ritrovi lo spirito comunitario di Spinelli, Adenauer, De Gasperi, Monnet o Schumann, tra gli altri. Uno spirito comunitario che serva anche per realizzare una nuova politica energetica, comune a tutti e non ancora a due velocità, in una ormai sclerotizzata differenziazione nord/sud. Per arrivare a una necessaria riduzione della dipendenza degli idrocarburi, ma anche a una sempre maggiore pluralità di fornitori affidabili e stabili. 

Per giungere a una nuova unità, di intenti e di valori, in grado di affrontare le sfide che ci pone questo ventunesimo secolo.

 

Michele Brunelli

Università degli Studi di Bergamo e Università Cattolica del Sacro Cuore; Fabula Mundi.