L’avvenire ha i piedi scalzi, diceva uno scrittore francese. E voleva intendere che il futuro lo costruiscono anche quelli che non contano niente. Belle parole per rassicurare anime ingenue o programma per costruire la pace? Di fronte alla guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, tutti ci chiediamo: che fare?
Forse è troppo pretendere di trovare qualcuno disposto a “morire per Kiev”, così come per Danzica nel 1939. «Ma, almeno, non lasciamo soli gli Ucraini e non abbandoniamo al proprio destino, in questa vergognosa nuova avventura bellica, neanche il popolo russo» afferma Adriano Dell’Asta, docente di lingua e letteratura russa all’Università Cattolica, un uomo che per quattro anni ha diretto l’Istituto italiano di cultura di Mosca, dove conserva amici fraterni tra la gente e tra gli intellettuali, ma ha anche un pezzo di cuore a Kiev per questioni familiari.
«C’è bisogno, oltre che di strategie geopolitiche, di deterrenza militare e di sanzioni economiche, anche di “iniziare processi, più che di occupare spazi”, come dice papa Franceso. C’è bisogno di “pontefici”, di costruttori di ponti». E il dialogo tra le culture è la via maestra per unire le sponde opposte su cui la propaganda ha relegato i popoli facendoli apparire nemici. «L’esito della guerra, come disse a inizio secolo di fronte al primo conflitto mondiale un altro papa, Benedetto XV, sarà il “suicidio dell’Europa”. Un rischio non ancora scongiurato, nonostante il vecchio continente sia riuscito a costruire, sulle macerie della Seconda guerra mondiale, un modello di convivenza linguistica».
L’avvenire ha i piedi di Anna Baydastka, professoressa ucraina di lingua russa della facoltà di Scienze linguistiche, che racconta di amici e congiunti nel suo Paese che, a mani nude, cercano di “disarmare” l’aggressore. E chiede tre cose concrete ai giovani bresciani: la preghiera, che sta all’inizio e non alla fine. L’informazione: con varie lingue e con diverse fonti, per smontare la menzogna della propaganda. L’aiuto concreto.
L’avvenire ha anche i piedi di Iryna Lavryshyn, che da 11 anni vive a Brescia e studia Lingue in Cattolica. Da quando è scoppiata la guerra, lacerata dal desiderio di raggiungere la propria famiglia («non tornare, salvati almeno tu», le hanno detto), non ha smesso un attimo di raccogliere aiuti per chi è rimasto sotto le bombe. Ma, pur stremata dalla paura e dalla fatica, ha la lucidità di indicare ai suoi coetanei la necessità di alimentare le relazioni interpersonali che stanno alla base di quelle interstatali.
La strada per un futuro di pace la percorrono anche i piedi dei russi e degli ucraini tra cui ha gettato ponti il professor Adriano Dell’Asta. «Le persone che spingono indietro i blindati a mani nude dimostrano che il cinismo non ha l’ultima parola, come è successo a Tienanmen o sulla Piazza Rossa nel 1968, quando sette persone protestarono a viso aperto contro l’invasione della Cecoslovacchia» afferma il professore. «Allora erano sette, oggi sono migliaia. Sembravano sconfitti, avevano vinto loro. In quattro gatti hanno riscattato l’onore di un popolo. Anche noi oggi possiamo riscattare l’onore di tutti noi, che siamo stati insensibili, che non sappiamo che cosa fare».
C’è qualcosa, invece, che possiamo fare, qualcosa che non è violento. Lo avevano capito, settant’anni fa, i ragazzi della Rosa Bianca, cinque universitari tedeschi che fecero, forse, la prima obiezione di coscienza contro il regime nazista. Incoraggiando molti altri a farla: «Se un’ondata di ribellione si estende attraverso il paese, se questo “si sente nell’aria”, se in molti vi contribuiscono, allora si potrà rovesciare questo sistema con un estremo poderoso sforzo. Una fine orrenda è sempre meglio di un orrore senza fine. Non ci è concesso di dare un giudizio definitivo sul senso della storia. Ma questa catastrofe potrà servire alla nostra salvezza; ciò avverrà soltanto se, purificati attraverso il dolore, desideriamo vedere levarsi la luce della più profonda notte, sorgiamo in piedi e contribuiamo infine a scuotere il giogo che opprime il mondo».
«Noi non taceremo. Siamo la voce della vostra cattiva coscienza», scrivevano sui volantini distribuiti all’Università di Monaco. Morirono, condannati per tradimento della patria, al grido di “freiheit”, libertà. Ma le loro vite, apparentemente sconfitte, vanno pesate, come disse Romano Guardini, sulla “bilancia dell’esistenza”. E qui risultarono vincitrici. «Come in un grosso barile d’aringhe – ha scritto Kierkegaard – vi è sempre uno strato compresso e spappolato, così in ogni generazione esistono uomini che stanno ai margini, vittime dell’imballaggio, i quali hanno la missione di proteggere gli altri».
Questo sono stati i ragazzi della Rosa Bianca, questo sono i giovani che in Ucraina difendono il valore della libertà a nome dell’intera Europa. Come ha scritto Tetsuo Morishita, professore di Diritto alla Sophia University di Tokyo, «ognuno di noi, come membro di una comunità internazionale che cerca la pace, «ha il potere di ridurre l’attrattiva dell’alternativa dell’uso della forza. L’importante è che ciascuno usi questo potere invece di pensare che sia un problema di qualcun altro». Così, facendo riecheggiare l’appello di don Tonino Bello all’Arena di Verona nel 1989, possiamo dirci, gli uni agli altri: “In piedi, costruttori di pace!”.
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