«Mentre Putin rischia freddamente la guerra, l’Occidente deve rischiare la pace». Non ha dubbi Mónica Días, Head of the PhD Programme dell’Institute for Political Studies della Universidade Católica Portuguesa, uno degli otto atenei cattolici del network internazionale Strategic Alliance of Catholic Research Universities (Sacru), che indicano un cammino alla comunità internazionale per sminare la strada militarizzata dall’intervento bellico della Russia in Ucraina, entrando nelle ferite di una crisi apparentemente senza via d’uscita per cercare feritoie attraverso cui veder sorgere la speranza e indicare percorsi di riconciliazione.
«Rischiare la pace» secondo Mónica Días significa «affrontare Putin con determinazione, insistendo sulla diplomazia anche in mezzo alla guerra, ricordando chi soffre, anche oltre le linee dei nemici, e offrendo rifugio e speranza, anche se l’orizzonte di una costruzione della pace postbellica più sostenibile sembra lontano».
Per questo «serve una risposta chiara a chi espande il suo potere con una logica di paura e violenza». Già ma come rispondere adesso? È il dilemma delle nostre democrazie, che si trovano al bivio tra la certezza che la guerra, come insegna il magistero della Chiesa dopo il Concilio e dopo la Seconda Guerra mondiale, non è più uno strumento per risolvere le controversie internazionali, e l’appello di uno Stato e di un popolo massacrati dalla potenza di fuoco di una potenza straniera.
«Mettiti nei miei panni» ci stanno dicendo gli Ucraini. E lo dicono a tutti quelli che, da un soffice divano o da una non meno comoda piazza, cercano di spiegare loro che cosa devono fare. Forse, guardando il mondo con i loro occhi, potremmo ri-vedere la nostra storia del ‘900. Ricordando la lacerazione interiore e i problemi morali, grandi come una casa, che, i partigiani come quelli cattolici delle Fiamme verdi dovettero affrontare prima di imboccare la dolorosa strada di imbracciare le armi. Avevano capito che, in quella particolare congiuntura della storia, non si poteva non decidere da che parte stare. Tra loro, una donna bresciana, Laura Bianchini, poi madre costituente, scelse di militare in quella formazione partigiana, compiendo quella che definì una scelta di civiltà, considerando il Vangelo come «annuncio di libertà e forza di liberazione». Incarnando nella loro vita, insieme a tanti uomini e molte donne, il motto del foglio clandestino “il Ribelle”: “Non vi sono liberatori, ma solo uomini che si liberano”.
“Le idee valgono non per quello che rendono ma per quello che costano” diceva nel 1926 padre Giulio Bevilacqua ai gerarchi fascisti della città di Brescia. La democrazia, la libertà e tutti i valori che stanno alla base dell’Europa non valgono niente se non costano niente. Che cosa siamo disposti a pagare?
«Stanno arrivando mesi difficili e tutti i Paesi occidentali sono attesi da sfide che riguardano le forniture di gas e petrolio, così come le minacce alla nostra sicurezza, alla nostra economia o alla nostra comunicazione digitale» spiega ancora Mónica Días. «Questo è il prezzo della solidarietà e il dovere della libertà, che non è dato, ma deve essere difeso ancora e ancora. Questo rischio potrebbe rivelarsi anche un’opportunità per unirsi intorno ai principi che hanno costruito l’Unione europea al suo inizio e per rinnovare l’impegno della Carta atlantica».
La posta in gioco è altissima, spiega Manuel Manonelles, docente di Relazioni Internazionali alla Blanquerna School for Communication and International Relations della Ramon Llull University di Barcellona. Siamo di fronte a «un vero e proprio “stress test” per mettere Washington alle corde e riportare l’Europa orientale al suo “ordine naturale” o, meglio, all’ordine che Mosca considera “naturale” nell’area. Il modo in cui si risolverà la situazione in Ucraina, infatti, può avere gravi impatti su altri scenari, dai Balcani allo stretto di Taiwan». In Bosnia ed Erzegovina l’atteggiamento secessionista di Mirolad Dodick – il leader della Republika Srpska – sta minando il delicato equilibrio istituzionale del Paese, formalizzato dagli accordi di pace di Dayton del 1995. «Il grande “regalo” che Pechino sta ricevendo dalla crisi ucraina è un preziosissimo manuale su come l’amministrazione Biden e i suoi alleati rispondono alle dosi di pressione ed escalation che la Russia sta conducendo. Se, da un lato, gli Stati Uniti sanno che l’opzione militare nell’Europa dell’Est non ha senso, dall’altro sono pienamente consapevoli che non possono mostrare la minima debolezza, perché si aprirebbe la porta a un fronte ancora più delicato e grave per la stabilità globale».
Forza e debolezza: tra questi due opposti corre oggi la sottile linea rossa della pace. Il rischio è altissimo. Ma non possiamo esimerci dal rischiare la pace.
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