È il tempo delle case per il lavoro
«Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro in Italia è un problema non serio ma serissimo» spiega Michele Faioli, docente di Diritto del lavoro alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica. «Ci sono due tipi di disequilibrio: il primo è il mismatch dei senior, gli over 50 che si ritrovano con competenze professionali non più combinabili con i nuovi modelli organizzativi e si sentono inadeguati».
E sono anche quelli più difficilmente adeguabili. È la sfida delle grandi corporation, che hanno creato le proprie “Accademy” interne, con la speranza di potere fare reskilling o upskilling su queste persone, ma con enormi difficoltà perché quando ci sono cambi gestionali o di modelli organizzativi possono esserci persone che non hanno la capacità di adattarsi o che non vogliono più adattarsi e scattano meccanismi psicologici difficili da gestire.
Come agiscono? Con un fenomeno di resiliation: “Ho lavorato per trent’anni, ne devo fare ancora dieci, se c’è la possibilità vado a fare un altro lavoro fino alla pensione, oppure chiederò il Tfr o la liquidazione del fondo pensione per aprire un bed and breakfast”. Per i senior il mismatch è un problema serio, che le grandi corporation faticano a gestire.
E qual è l’atro mismatch? È quello, pericolosissimo, dei giovani. Su questo hanno responsabilità tutti coloro che si occupano di formazione, dall’asilo all’università, passando per scuola media, scuola superiore, Its, enti di formazione. Un problema serio perché né le istituzioni scolastiche e universitarie, né la famiglia, né le parrocchie, né il terzo settore, né le associazioni, né i sindacati riescono ad aiutare a discernere il proprio talento, la propria vocazione professionale.
Possiamo parlare di un fallimento della formazione? La scuola non riesce a dire ai ragazzi: “Cosa vuoi fare da grande?” e, “se hai un’idea, ti aiuto io a capire se hai talento”. La famiglia non riesce ad accompagnarli nella scelta, le associazioni non lo fanno più o, se lo fanno, lo fanno poco e male. Abbiamo ondate di ragazzi che, dalle scuole medie in poi (liceo, università, Its), sbagliano formazione e arrivano sul mercato del lavoro totalmente inadeguati.
Come si può risolvere il problema? Insistendo, fin dalle scuole medie, perché ragazzi e ragazze capiscano com’è fatto il mercato del lavoro, quali siano le professionalità che richiederà, sostenendo le materie Stem (science, technology, engineering and mathematics – ndr). Non è possibile che tutti i ragazzi si occupino di “fashion”: è una tendenza sbalorditiva, che mostra un problema culturale.
È il “modello Ferragnez”. Una deriva che è entrata antropologicamente nel Paese e non è controbilanciata da un “modello Samantha” (Cristoforetti). L’astronauta è lontanissima dalle ragazze, non capiscono perché lei sta sulla Luna e quanto i suoi studi siano determinanti per l’umanità.
Come si diventa Samantha? C’è un percorso che passa da scuole medie, liceo scientifico, ingegneria. C’è un sistema su cui bisogna ragionare molto e bene. Ma tutto ciò cela un problema ancora più drammatico.
E cioè? L’inadeguatezza totale del sistema delle politiche attive italiane: l’avere valenza prevalentemente pubblicistica, statalista, in ossequio alla cultura per cui il centro dell’impiego o la fa lo Stato o non lo fa nessuno.
Nessuno che parli di sussidiarietà. Un errore gravissimo su cui si innesta un’ulteriore criticità: la regionalizzazione, per cui abbiamo Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Toscana che hanno dei servizi funzionanti e tutto il resto d’Italia che sta a zero.
Che cosa si dovrebbe fare? Le politiche attive sono quelle che permettono alla persona di individuare il proprio percorso formativo e professionale: provate ad andare presso un Cpi: se vi fanno la profilazione, un mero atto burocratico, è già oro. Dobbiamo avere dei centri per l’impego impostati – facendo il parallelo con una sanità territoriale – come dei centri di prima cura, per far capire ai giovani cosa sta accadendo, con colloqui e visite guidate sui posti di lavoro, per aiutare a far capire e vedere il mondo reale.
Diciamo un po’ come il medico di base nella sanità. O le nuove case della salute, dove ci sono tanti specialisti perché devi essere aiutato da tanti punti di vista. Lo stesso devono essere, uscendo di metafora, le “case per il lavoro”.
Può essere una pista di lavoro concreta per le Acli. Purtroppo tutto ciò non c’è e che cosa abbiamo fatto con il Pnrr? Abbiamo consolidato questo modello dando 5 miliardi ai Cpi che non funzionano o che funzionano solo sulla carta, rendicontando solo i numeri delle profilazioni e il numero di corsi che, per la maggior parte delle volte, servono ai formatori che alle persone da formare.
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