Le pagine dell’economia e finanza le saltavo in blocco. Un moto di irritazione per un linguaggio che percepivo volutamente ostile e da adepti unito alla consapevolezza di una profonda impreparazione tecnica facevano da deterrente a ogni ulteriore curiosità. Come ognuno faccio ovviamente i conti con bilanci famigliari, spese e guadagni, stipendi. La mia idea di economia era circoscritta e limitata, scollegata da questioni che ritenevo ben più importanti e meritevoli di interesse cui dedicarmi: le scienze umane, l’arte, la filosofia, la letteratura, la psicologia, la cultura in generale. Questa disaffezione un po’ snob, comporta molti rischi. Il primo è di demandare agli esperti, questioni che invece hanno profonde e concrete ripercussioni sulla vita quotidiana, su consumi, stili di vita, crisi energetica, relazioni umane, degrado ambientale. Salvo poi scandalizzarsi ingenuamente nel constatare la pervasività del discorso economico in pressoché ogni attività umana. Ciò che mi ha invitato almeno in parte, a ricomporre questa distanza, è stata una evidente correlazione: l’acquisto di ogni bene materiale racchiude una allettante promessa di felicità. Un formidabile rinforzo che alimenta, stimola, motiva il nostro comportamento al consumo infinito. Come già ricordava Aristotele, tutti gli uomini ricercano la felicità. Il consumatore, non “cittadino né persona” si badi, è blandito e costantemente corteggiato dal messaggio pubblicitario. Acquistando questo o quel prodotto saremo più snelli, più ammirati e amati, più eleganti, più in forma, più ricchi, più sani, più intelligenti, ecc. ecc. in una ossessiva stimolazione mediatica. Una botta straordinaria all’autostima. Ma un consumo esponenziale in un sistema dalle risorse finite è catastrofico. Una recente ricerca israeliana ha documentato che gli oggetti prodotti dalle attività umane, equivalgono all’intera biomassa del pianeta (https://greenreport.it/risorse/pianeta-terra-2020-la-massa-dei-materiali-prodotti-dalluomo-e-uguale-alla-biomassa-del-pianeta/)
Questa promessa di felicità è mantenuta? Siamo davvero più felici grazie a tutti i beni materiali che acquistiamo? Sembra proprio che non sia così. Approfonditi studi di economia, finanza, scienze sociali e addirittura, in Italia, da una facoltà universitaria di economia della felicità con sede a Siena (si veda per es. S. Bartolini “Ecologia della felicità. Perché vivere meglio aiuta il pianeta” Aboca, 2021) hanno misurato il grado di felicità delle persone adottando due differenti approcci: qualitativo e quantitativo. Nel primo si è chiesto a migliaia di persone di ogni ceto sociale se si dichiarassero felici della loro vita. Il secondo criterio ha invece esplorato alcuni dati sociali oggettivi tra cui: l’uso di psicofarmaci, la diffusione di malattie mentali, i comportamenti suicidari. I risultati sono sorprendenti. Non solo un’economia del consumo non ci rende più felici ma oltre una certa soglia entro la quale i bisogni essenziali sono soddisfatti, si assiste ad una repentina curva decrescente della felicità con conseguente aumento esponenziale del disagio. Con enormi costi sociali e sanitari che poi gravano sulla collettività. Perché consumiamo così tanto? Secondo gli economisti della felicità, lo facciamo per sopperire alla povertà delle relazioni sociali. In un mondo in cui la gente compra sempre di più perché è più sola e stressata la felicità però non aumenta. Secondo gli intervistati i beni che decretano una migliore qualità della vita sono tra gli altri: la qualità delle relazioni sociali, gli affetti, il numero delle interazioni sociali positive, la qualità dei servizi, la fruibilità degli spazi pubblici, la partecipazione alla vita collettiva, il senso di appartenenza alla comunità. Le persone che vivono con queste caratteristiche consumano meno e sono più felici. È questa l’economia che dovrebbe crescere; non è affatto vero che meno consumi vuol dire vivere peggio. I contributi scientifici citati vanno inquadrati in un vasto movimento di ‘critica del Pil’ che mira a ridurre il suo abnorme ruolo nell’orientare le scelte economiche includendo invece anche aspetti psicologici, sociali e ambientali. In Italia ad esempio l’Istat ha adottato il BES (Benessere Equo e Sostenibile). Quali nuove e buone proposte potrebbe produrre una politica che avesse a cuore la saldatura del legame tra economia e felicità?
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