Il lavoro che cambia
Per il DNA della nostra associazione non possiamo esimerci, periodicamente, di fare qualche riflessione più approfondita sul tema del lavoro e delle sue trasformazioni. Le pagine che seguono sono quasi interamente dedicate al lavoro. Ogni fase di grande trasformazione, che in alcuni casi arriva sui libri di storia e si chiama “rivoluzione”, porta con sé grandi moti di speranza e al contempo di disperazione. C’è chi scorge il baratro e chi vede il ponte. Ci trovavamo nel pieno della Quarta Rivoluzione Industriale (la famosa Industria 4.0), ancora il dibattito non si era spento, ancora nessuna catastrofe si era verificata, ma anche il luminoso progresso promesso dall’innovazione tardava a manifestarsi. Eravamo ancora lì, in attesa che la rivoluzione si compisse del tutto, ed è arrivato l’imprevisto. Un virus, una pandemia.
Fermi tutti, spegnete le macchine.
Ora che siamo ripartiti (i dati Istat a luglio indicavano un numero dei lavoratori dipendenti superiore a quello di febbraio 2020) ci dobbiamo chiedere se la pandemia (che in ogni caso è ancora in corso) abbia lasciato strascichi sul nostro modo di lavorare, se ha portato qualche beneficio, se ha accelerato qualche processo. La domanda è retorica, perché è evidente ad esempio come la digitalizzazione del lavoro d’ufficio, già prassi nelle grandi aziende o in quelle più piccole ma evolute, sia arrivata persino nella polverosa Pubblica Amministrazione, dove tuttavia si è scelto di non mantenere il modello “smart” imposto dall’emergenza sanitaria. Il cambiamento più evidente, lo possiamo dire, è stato per i “colletti bianchi”. Gli imprenditori si sono resi conto che le loro aziende non sono collassate pur non vedendo i loro dipendenti in faccia ogni singolo giorno. Il più grande effetto collaterale positivo del Covid-19, a mio modesto (ed egoista) parere. Ma in fabbrica? Al supermercato? In ospedale? Forse c’è qualche protocollo in più da seguire, attenzioni maggiori alla salute degli operatori e delle operatrici, ma la sostanza?
Nella sostanza credo sia cambiata la relazione che abbiamo con l’attività che ci dà da vivere. I numeri dicono che, a fianco dei numerosi licenziamenti avvenuti nei mesi di emergenza, causati dalla contrazione delle attività, la pandemia ha portato anche a numerose dimissioni volontarie. La pandemia ha portato molte persone a rivalutare le proprie priorità in un contesto che aveva visto stravolgere il proprio tempo e il proprio spazio. L’aspetto economico non è sempre quello decisivo. I lavoratori e le lavoratrici cercano sempre più (la pandemia ha solo accelerato il processo) una situazione lavorativa in cui possano davvero realizzarsi come professionisti e persone, in aziende che investano nella loro formazione e che lasci loro il tempo per avere una vita soddisfacente anche al di fuori del lavoro.
Molte aziende lo hanno capito. E stanno investendo in welfare e formazione. Crediamo sia questo il futuro buono del lavoro. E mentre facciamo il tifo perché le situazioni virtuose si moltiplichino anche sotto la spinta di lavoratori e lavoratrici non disposti ad accontentarsi, non possiamo non piangere per gli oltre 1000 morti che abbiamo dovuto contare anche quest’anno sui luoghi di lavoro.
In uno Stato in cui le norme per la Salute e la Sicurezza sul lavoro (contenute nel Testo Unico sulla Sicurezza, Decreto Legislativo 81/08) prevedano già, sulla carta, il “vaccino” che dovrebbe contrastare questo fenomeno, crediamo che Formazione e Cura (due parole chiave che vedremo anche nelle prossime pagine) restino gli antidoti più efficaci. Insieme ovviamente ai controlli e le risorse per farli.
Scrivi un commento